10 Nov 2021
 / The Message

Veicoli a due velocità – Greenwashing

Spesso, per poter modificare uno status quo caratterizzato da eccessi, ci vuole un evento estremo sufficientemente importante da scardinare l’irrazionalità iniziale. Parliamo di rivoluzioni che portano a cambiamenti radicali. Quella che stiamo vivendo oggi viene definita la più grande trasformazione dopo la rivoluzione industriale, e come tale ha generato disequilibri in grado di spezzare l’eccesso nel quale abbiamo vissuto finora.

“Mettere al bando il Greenwashing”, “Siamo sommersi dal Greenwashing”, “Ecologia contro il Greenwashing”, “Lotta al Greenwashing”: sono solo alcuni dei titoli che hanno popolato il web nell’ultima settimana o poco più. Come anticipato nel numero precedente (L’oro ramato - Mining), pare che questa attività di caccia al verde mascherato sia molto in fermento, non solo tra gli investitori.

Quasi tutti gli articoli menzionano lo studio presentato da Influence Map, nel quale si evidenzia come di 723 fondi analizzati, 593 fondi generici ESG e 130 tematici, il 71% appartenente al primo gruppo e il 55% del secondo non siano allineati agli accordi di Parigi sul clima (per approfondimenti).

Il problema del Greenwashing sta assumendo un’importanza tale da essere stato oggetto del simposio di Arcantara a Venezia e di manifestazioni in piazza di molti giovani, nelle quali sono state prese di mira le politiche greenwashed operate da parte dei governi: la stessa Greta Thunberg ha parafrasato con “blah, blah, blah” le promesse sul clima fatte da parte dei leader mondiali.

La trasformazione energetica trentennale europea forse mal si sposa con il frenetico mondo giovanile abituato a avere tutto e subito, ma non pare che l’Europa, con il suo fit for 55 e l’intenzione, ribadita recentemente da Von der Leyen, di mobilitare 1000 miliardi da qui al 2030, sia intenzionata a rallentare il passo. Tutt’altro.

Ma le cose non cambiano dall’oggi al domani. Ci vuole pazienza e costanza. È infatti difficile pensare che l’obiettivo di emissioni nette pari a zero entro il 2050 sia raggiungibile semplicemente chiudendo tutti i pozzi di petrolio, dato che le fonti fossili contribuiscono ancora a generare l’80% dell’energia necessaria al nostro sostentamento e sviluppo.

Allo stesso modo è forse eccessivo, adesso, puntare il dito verso quegli strumenti finanziari che, integrando i principi ESG nel loro processo di selezione, mantengono un’allocazione pressoché omogenea su tutti i settori. Anche perché potremmo essere mai veramente sostenibili facendo a meno dei prodotti offerti da quelle compagnie poco presenti nei temi ESG, quali acciaio, petrolio, gas, cemento e banche? D’altronde anche la Von der Leyen, al lancio del Green Deal, ha affermato che “nessuno verrà lasciato indietro”.

Il fenomeno del greenwashing esiste, è innegabile, ma non basta che un prodotto investa in una oil company perché venga giudicato ingannevole. Bisogna piuttosto distinguere chi, pur essendo in un settore inquinante, si sta sforzando di compiere quella trasformazione che lo porterà fra trent’anni ad avere contribuito a raggiungere l’obiettivo comune, da chi invece tenta di procrastinare questa rivoluzione fino a un punto di non ritorno.

Nonostante l’Europa abbia messo a disposizione l’SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation, la nuova direttiva sui prodotti sostenibili) e la Tassonomia (l’elenco delle attività sostenibili), molta confusione aleggia ancora intorno al mondo ESG, e sarà necessario sempre un maggior impegno da parte di clienti e operatori finanziari nello studiare le società e i prodotti proposti.

Analizzando molti ETF generalisti ESG, il cui tracking error è molto ridotto rispetto ai tradizionali indici di mercato, può venire il dubbio che chi li ha creati abbia aggiustato il tiro quel tanto che basta perché gli stessi prodotti assumano una qualche sbiadita tonalità di verde. Non si capirebbe altrimenti come mai le società solari, eoliche, dell’idrogeno siano giù del 40% dall’inizio dell’anno, mentre questi ETF abbiano performance positive a doppia cifra, in linea col mercato.

Questo non vuol dire che non ci debbano essere prodotti che spingono di più sull’acceleratore e che preferiscono investire solo nelle tecnologie che saranno protagoniste nel prossimo futuro.

Due veicoli a due velocità: art. 8 e art. 9, secondo la classificazione della SFDR. Non sono da disprezzare i primi, perché meno puri dei secondi.

La trasformazione durerà trent’anni e per diventare verdi scuri si può anche passare attraverso tonalità minori. L’Europa lo sa e ha previsto l’esistenza di entrambi. Sarà poi una scelta dell’investitore quale soluzione prediligere.

Equilibrio: siamo su un’astronave in partenza per un viaggio lungo trent’anni. Godiamocelo, senza frenesia.

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