10 Gen 2022
 / The Message

Arma a doppio taglio – ETS

Spesso le idee nascono da necessità contingenti e sono animate da buone intenzioni. Talvolta però non si riesce a prevederne effetti collaterali che possono ritorcersi contro. Pensiamo per esempio alla plastica, nata intorno alla fine dell’800 per sostituire le palle da biliardo, allora prodotte con il costoso e controverso avorio, ma i cui sviluppi e diffusione hanno generato gli effetti che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

L’ETS (Emissions Trading System) è il meccanismo principale col quale l’Europa vuole ridurre le emissioni di CO2 da qui al 2050, nonché tra le nuove fonti proprie più fruttifere di finanziamento per ripagare la parte di Eurobond, emessi con il programma Next Generation EU, dati in sovvenzione agli Stati membri.

Il sistema è abbastanza semplice (per una maggiore comprensione ETS EU). L’Europa fissa il tetto di emissioni di CO2 annue che le aziende possono produrre sul nostro continente. Per ogni tonnellata di CO2 crea un certificato. Di conseguenza, ogni anno ci sarà in circolazione un numero di certificati pari alle tonnellate che le società possono emettere. Siccome non è possibile evitare la CO2, e l’Europa non vuole soffocare le proprie imprese, una parte di questi certificati viene assegnata a titolo gratuito, mentre la restante parte viene messa all’asta. C’è anche da specificare che non tutti i settori sono uguali, perché un’azienda informatica inquina certamente meno di una centrale termica, e non tutti dispongono delle tecnologie per ridurre le proprie emissioni nel breve termine: è più facile che l’energia oggi prodotta da una centrale termica sia prodotta dal sole e dal vento che un aereo o una nave possano muoversi con l’elettricità. Così l’Europa decide quali settori debbano rientrare sotto questo schema e quali sono graziati ancora per un po’. Ogni 30 di aprile tutte le società appartenenti ai settori coinvolti devono calcolare quante tonnellate di CO2 hanno emesso nell’anno precedente e avere un numero di certificati equivalenti da restituire all’Europa.

Per raggiungere il suo scopo di emissioni nette zero entro il 2050, ogni anno l’Europa non solo riduce la quota parte di certificati emessi, ma diminuisce anche la percentuale gratuita. E più velocemente vuole giungere al suo obiettivo, più accelera la riduzione dei certificati emessi. Infatti, a luglio, con il suo Fit for 55, decidendo di ridurre la quantità di CO2 nel continente entro il 2030 dal 40% al 55%, l’Europa non ha fatto altro che aumentare dall’1.74% al 2.2% la riduzione annua dei certificati emessi.

Ora, il tutto pare un circolo virtuoso, nel quale le società che hanno emesso meno tonnellate di CO2 avranno dei certificati che gli avanzano, mentre i più cattivi dovranno comprarne la parte mancante all’asta, o dai virtuosi, che ne hanno d’avanzo. Così compagnie operanti nell’idroelettrico o che producono auto elettriche guadagneranno anche da questo meccanismo a discapito di chi genera elettricità da fonti fossili o di chi produce ancora troppe auto a benzina e diesel.

C’è un però. Il prezzo di questi certificati, ossia il prezzo di una tonnellata di CO2, si scambia sul mercato. C’è un future (MO1 comdty) che ne traccia giornalmente il valore. L’intenzione dell’Europa di accelerare il taglio dei certificati emessi ha portato i fondi di investimento, a partire da fondi hedge, a scommettere sul rialzo di questa commodity facendone lievitare il prezzo. Non solo. Ci sono strumenti sul mercato che permettono anche agli investitori retail di partecipare alla festa. Cosa lecita in un mondo liberale dove anche il petrolio subisce la stessa sorte, ma questo effetto può avere dei risvolti piuttosto controversi. Ancora oggi l’80% dell’energia prodotta deriva da fonti fossili. Se il prezzo della CO2 continua a salire, le aziende che non possono trasformarsi istantaneamente in virtuosi devono comprare certificati a un prezzo sempre maggiore, e quindi alzare i prezzi a discapito dei consumatori.

Si stima che il 20% dell’aumento del gas visto nei mesi scorsi dipenda dal prezzo della CO2, triplicato da inizio anno, la qual cosa ha portato la Polonia a lamentarsi di speculazioni finanziarie sul mercato dell’anidride carbonica. I prezzi alti del gas, inoltre, rendono più conveniente la reintroduzione del carbone come fonte di generazione dell’energia, la cui produzione richiede l’acquisto di certificati CO2 sul mercato ETS, con conseguente aumento dei prezzi. Così quello che è nato come un circolo virtuoso può trasformarsi in un circolo vizioso.

Oltre all’ETS, c’è anche il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), altra sigla con la quale l’Europa intende tassare la CO2 importata da fuori confine. Il fenomeno è indicato come carbon leakage, ossia l’atto di importare prodotti che producono CO2 da paesi che non hanno introdotto balzelli sul carbonio. Acciaio, alluminio, cemento, elettricità che arriveranno a costi minori dall’estero, vedranno un aumento dei prezzi per non creare politiche anticoncorrenziali con le imprese che producono solo internamente o che operano in paesi che partecipano al mercato ETS europeo, come la Norvegia o la Svizzera.

Il tutto comporterà che società legate a questi settori proporranno aumenti dei prezzi o subiranno una riduzione dei margini, perché qualcuno dovrà pur pagare i 9 miliardi della CBAM e i 10 miliardi degli ETS, sempre che il prezzo della CO2 non lieviti ancora.

Aggiungiamo anche che ci vorranno forse almeno un paio d’anni prima che i meccanismi della CO2 siano oliati e efficienti, ma i suoi effetti potrebbero sentirsi prima, e in un contesto in cui da tutte le parti si parla di inflazione temporanea, ciò potrebbe ampliare i tempi, già lunghi, di un ritorno alla normalità.

Che un innalzamento del prezzo della CO2 sul mercato fosse un desiderio degli inventori di questo meccanismo per accelerare una trasformazione tanto auspicata è plausibile, ma un impennamento così repentino potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio forse non voluta.

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